Vivere nell'Europa di oggi
Un’unione da riscoprire: tra obiettivi raggiunti e sfide ancora aperte
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Vivere in Europa oggi significa godere di qualcosa di straordinario. Anche se, troppo spesso, lo dimentichiamo.
Parliamo di un continente che ha saputo trasformare secoli di conflitti in un progetto di pace condivisa. Che ha abbattuto frontiere, unificato la moneta, garantito diritti fondamentali a milioni di persone. E che — nonostante crisi, tensioni e divergenze — continua a scegliere la cooperazione anziché il confronto armato.
Dietro ogni volo senza dogana, ogni Erasmus che attraversa 27 Paesi, ogni progetto condiviso tra città e territori, c’è un’idea potente: la diversità non è una barriera, ma una ricchezza da valorizzare. Essere europei, oggi, non è un’etichetta: è una possibilità concreta.
Simboli che uniscono… o che restano simboli?
L’euro, in circolazione dal 2002, nasceva come più di una valuta: era un atto politico, un’aspirazione concreta all’integrazione economica. Ma se oggi un caffè costa 1,10 € a Lisbona e 2,50 € a Helsinki, quell’unità resta, per molti, più simbolica che reale.
E la bandiera? Dodici stelle dorate su sfondo blu, adottata nel 1955 ben prima dell’UE. Non rappresentano Stati, ma ideali: perfezione, armonia, speranza. Forse vale la pena riscoprirli. O, almeno, ripartire da lì.
Più Europa, più uguaglianza?
Dal 2004, l’Unione è passata da 15 a 27 membri. Ma più allargamento non ha significato necessariamente più convergenza. Al contrario:
Il PIL pro capite della Germania è il doppio di quello bulgaro.
La disoccupazione giovanile supera il 20% in Spagna e Grecia, mentre in Germania e Paesi Bassi è sotto il 7%.
I salari medi variano da oltre 3.500 € in Lussemburgo a meno di 900 € in Romania.
Sì, è vero: in molti Paesi dell’Est la crescita è stata significativa. Ma le disuguaglianze restano, e in tempi di pandemia, guerra e inflazione, rischiano di ampliarsi ancora.
Un’identità in costruzione
Essere cittadini europei oggi significa vivere su più livelli. Studiare in Belgio, lavorare in Danimarca, pagare le tasse in Irlanda. Una rete intricata di opportunità, che si regge su un bene fragile: la fiducia reciproca.
Ma oggi — diciamolo — quella fiducia scricchiola. E con essa, l’idea di appartenenza.
Siamo europei per convinzione o per convenienza?
Ci sentiamo parte di una comunità, o semplici utenti di un sistema che ci serve finché funziona?
E in Italia? Un’Europa dentro i confini
Anche guardando all’interno del nostro Paese, l’idea di un’identità comune si confronta con disuguaglianze profonde. In fondo, l’Italia stessa è una piccola Europa: territori diversissimi per storia, reddito, accesso ai servizi, mobilità sociale.
Il PIL pro capite della Lombardia è più del doppio rispetto a quello della Calabria. I tassi di occupazione giovanile in regioni come il Trentino-Alto Adige superano il 60%, mentre in Sicilia o Campania restano drammaticamente bassi. La qualità delle infrastrutture, della sanità, della scuola varia in modo marcato da una regione all’altra.
Anche nell’accesso ai fondi europei — che dovrebbero ridurre le disuguaglianze — si riflettono queste asimmetrie: le regioni più forti riescono spesso a utilizzarli meglio, mentre quelle più fragili fanno fatica a intercettarli.
Come scritto da Donato nella newsletter Frontiere in espansione, viene da domandarsi se possiamo davvero costruire un’Europa coesa se, all’interno dei singoli Stati, esistono squilibri così marcati?
💬 Donato, nel suo intervento, ha sottolineato un punto cruciale: "Sul fronte del bilancio UE, i nuovi ingressi significherebbero più fondi da destinare a paesi con PIL pro capite molto basso, con il rischio che l’Italia – oggi beneficiaria netta – veda ridursi i fondi di coesione e debba contribuire di più. Un’analisi in grandi linee ci vedrebbe perdere circa 8 miliardi di euro tra contributi maggiorati al bilancio comune e perdita dei fondi di coesione di cui il Sud Italia beneficia direttamente. La Francia ne perderebbe circa 10, mentre la Germania circa 12 miliardi."
Tuttavia, non è tutto in perdita.
Come accennato anche nel testo principale, si aprirebbero nuovi mercati per le aziende europee, e in particolare per quelle italiane nei settori di infrastrutture, energia e agroalimentare. Inoltre, una maggiore stabilità geopolitica ai nostri confini sarebbe un vantaggio non trascurabile.
Infine, una domanda aperta che ci riguarda tutti: "Vogliamo un’Europa che si muove tutta insieme, oppure un’Europa che procede a velocità diverse, a seconda delle capacità e delle priorità dei singoli paesi?"
🙋♂️ Donato, tu cosa ne pensi?
Stiamo andando verso più integrazione, o più disillusione?
E voi, lettrici e lettori di Grovigli:
📌 Quand’è stata l’ultima volta che vi siete sentiti davvero europei?
Raccontatelo. Condividetelo.
Perché forse l’Europa non è un’identità data, ma una storia ancora da scrivere. Insieme.
Grazie, Stefano!
Condivido appieno il sentimento: spesso dimentichiamo quanto sia potente la nostra Unione e quanto straordinaria sia la ricchezza — non solo economica — che ha saputo generare.
Il mercato unico, l’euro, la mobilità: sono conquiste che rendono l’UE un vero motore di crescita.
Però — e c’è sempre un però — per fare davvero il salto di qualità, dal mio punto di vista servono due riforme chiave: l’unione fiscale e l’unione dei mercati dei capitali.
Unione fiscale
Un sistema fiscale europeo integrato garantirebbe maggiore stabilità, equità e capacità di risposta comune alle crisi. Tuttavia, significherebbe anche che gli Stati membri dovrebbero cedere parte della loro sovranità, perdendo strumenti chiave per attrarre investimenti o sostenere settori strategici. Questo ridurrebbe la loro autonomia, soprattutto per i Paesi che oggi usano la leva fiscale come vantaggio competitivo.
Unione dei mercati dei capitali
Un mercato finanziario europeo integrato faciliterebbe l’accesso al credito, ridurrebbe la dipendenza dal sistema bancario nazionale e migliorerebbe la circolazione dei capitali. Ma richiede regole comuni, vigilanza condivisa e armonizzazione normativa: un passo politico non banale.
In questo contesto, un’Europa a due velocità potrebbe rappresentare una fase di transizione utile, per lo meno su queste tematiche:
Un laboratorio politico per testare l’integrazione fiscale e finanziaria tra Paesi pronti a fare il salto.
Uno stimolo per gli altri, che potrebbero essere incentivati a convergere una volta visti i benefici concreti.
Un modo per evitare stalli, permettendo a chi vuole e può andare avanti, senza bloccare l’intero progetto europeo.
Per concludere, non sono sicuro che, al momento, stiamo davvero andando nella direzione giusta — e credo che l’ondata di nazionalismi oggi al comando lo dimostri chiaramente.
Sono convinto che una maggiore integrazione, non solo economica, porterebbe benefici reali: più investimenti, più stabilità, più crescita.
Ma tutto questo richiede una visione politica condivisa. L’Europa può scegliere se restare una somma di interessi o diventare una vera comunità. E forse, per arrivarci, servono anche strade parallele.